I meriti dei grandi innovatori purtroppo sono assai spesso riconosciuti solo dopo la loro morte. E’ stato così anche per l’inglese Frederick Scott Archer (1813-1857), inventore modesto ma geniale, che rivoluzionò la fotografia realizzando il processo al collodio umido, di gran lunga più avanzato e rapido di quelli allora esistenti, e che, ciononostante, morì senza aver tratto dalla sua invenzione né ricchezza né notorietà alcuna.
Nel 1851, anno in cui Archer mise a punto il suo processo al collodio umido, il mercato fotografico era dominato dal dagherrotipo e dal calotipo. Con il primo si otteneva, su una lastra metallica argentata, un’immagine di estremo dettaglio, ma in esemplare unico non riproducibile; inoltre si richiedeva un tempo di posa molto lungo e il costo era piuttosto elevato. Il calotipo, invece, col suo negativo di carta permetteva di ottenere un numero illimitato di copie positive, ma dava risultati meno soddisfacenti come finezza di dettaglio e meno stabili nel tempo di quelli ottenibili con il dagherrotipo. Molti ricercatori francesi avevano tentato invano di trovare un sistema che combinasse i vantaggi del calotipo con quelli del dagherrotipo, eliminandone gli inconvenienti: Saint-Victor, ad esempio, nel 1849 aveva sperimentato delle lastre ricoperte con una miscela di albume (bianco d’uovo) e di cloruro di potassio; Blanquart-Evrard nel 1850 aveva usato della carta ricoperta di albume e di cloruro di ammonio; Le Gray nel 1851 provò a immergere la carta nella cera liquefatta prima di sensibilizzarla. Nessuno di questi tentativi ebbe successo.

Archer, nato nell’Hatfordshire, era figlio di un macellaio. Dapprima apprendista presso un argentiere, poi perito numismatico e scultore, cominciò ad interessarsi alla fotografia verso la fine degli anni quaranta. Anche Archer, come i francesi, provò con l’albume e con altri prodotti finché, nel 1848, pensò di utilizzare una sostanza da poco scoperta, il collodio. Questo liquido viscoso, ottenuto sciogliendo la nitrocellulosa in una miscela di etere e di alcol, essicca rapidamente, lasciando una pellicola trasparente, resistente e impermeabile che era usata per proteggere piccole ferite. Archer si rese conto immediatamente delle possibilità di questo materiale.

Nel 1851, dopo tre anni di prove, il suo metodo era ben definito: la lastra di vetro, ricoperta di un sottile strato strato di collodio miscelato con ioduro di potassio, veniva sensibilizzata per immersione in una soluzione di nitrato d’argento. Veniva quindi esposta ancora umida (di qui il nome del processo di Archer) e subito dopo doveva essere sviluppata, fissata e fatta asciugare. I risultati di questo processo erano stupefacenti: con pochi secondi di posa si ottenevano negativi di estrema nitidezza, che consentivano di ricavare un numero illimitato di copie positive di qualità eccezionale.
Se Archer si fosse preoccupato di sfruttare commercialmente la sua scoperta, l’avrebbe regolarmente brevettata e ne avrebbe così ricavato lauti guadagni; invece si limitò a pubblicare i risultati dei suoi esperimenti e quando morì, sei anni dopo, a soli 44 anni, nessuno si ricordò di lui e della sua rivoluzionaria invenzione che; col nome di “processo al collodio umido”, soppiantò in pochi anni sia il dagherrotipo sia il calotipo. Più tardi Blanquart-Evrard, utilizzando carta, semilucida trattata con albume e poi virata con cloruro d’oro, ottenne immagini seppia molto stabili nel tempo.
Dal negativo al collodio si ricavarono anche copie positive uniche, trattando la lastra con un bagno di sbianca. Questi positivi furono chiamati “ambrotipi” ed ebbero un certo successoper il loro costo limitato, pur essendo di qualità inferiore alle vere copie positive, e vennero generalmente montati su un fondo scuro (di cartone, velluto o cuoio). Il processo al collodio umido aveva però un grave difetto: le lastre dovevano essere esposte appena preparate e subito dopo sviluppate. Il fotografo perciò, per lavorare in esterni, doveva portare con sé non solo la macchina (non certo piccola e leggera) con il relativo treppiede, ma anche una notevole quantità di prodotti chimici e di attrezzi e una tenda che fungeva da camera oscura portatile. Talvolta era necessaria anche una scorta d’acqua. E pensare che oggi ci si lamenta che uno zaino di qualche kg è troppo pesante!

Se Archer si fosse preoccupato di sfruttare commercialmente la sua scoperta, l’avrebbe regolarmente brevettata e ne avrebbe così ricavato lauti guadagni; invece si limitò a pubblicare i risultati dei suoi esperimenti e quando morì, sei anni dopo, a soli 44 anni, nessuno si ricordò di lui e della sua rivoluzionaria invenzione che; col nome di “processo al collodio umido”, soppiantò in pochi anni sia il dagherrotipo sia il calotipo. Un necrologio lo descrisse come “un gentiluomo molto insospettabile, in cattive condizioni di salute”.

La sua famiglia ha ricevuto un dono di 747 sterline dopo la sua morte, sollevata mediante abbonamento pubblico e una piccola pensione è stata fornita per sostenere i suoi tre figli dopo la morte della loro madre.

Il 1° maggio 2010, dopo 150 anni, i membri del ‘Collodion Collective’ – cioè Carl Radford, John Brewer e Quinn Jacobson – hanno restaurato la tomba abbandonata di Frederick Scott Archer nel Kensal Green Cemetery, ponendo una lapide commemorativa. La Royal Photographic Society ha una piccola collezione di fotografie di Frederick Scott Archer. Per ulteriori informazioni su Frederick Scott Archer, visitate le seguenti due pagine sul sito di Sean MacKenna








